sabato 28 marzo 2009

Roman Fiodorovic Von Ungern Stenberg - Ungern Khan!




«Spegnerò la stella rossa» Il barone che ispirò Pratt


«La vittoria o la sconfitta sono due puttane bugiarde. Solo la guerra m’interessa. Non quello che viene dopo. Bisogna combattere sino in fondo. Anch’io ritengo che questa guerra sia perduta. Ma la disperazione è bugiarda quanto la speranza. Solo una cosa conta: diventare ciò che si è e fare ciò che si deve». Così parlò il generale-barone Román Fiodórovic von Ungern-Sternberg (1885-1921), il leggendario condottiero baltico anticomunista immortalato da Hugo Pratt in un episodio di Corto Maltese (Corte Sconta detta Arcana). «Diventa ciò che sei», ammoniva lo Zarathustra nietzschiano e Ungern Khan, come venne ribattezzato in quanto “liberatore” della Mongolia, non si tirò indietro rispetto a ciò che il destino aveva in serbo per lui: battaglie e sangue.
il gusto della guerra
Solo in battaglia il suo spirito si realizzava. In tempi di pace diventava inquieto. Diceva ai suoi: «Rispetto l’unica legge del mondo, che è quella della lotta. In questo senso, il bolscevismo può diventare una possibilità, perché rischia di provocare una reazione». E ancora: «I rossi vogliono la lotta di classe. Sto preparando loro l’unica risposta possibile: la lotta di razza. Non temo la forza dei rossi. Essa è nell’ordine spietato delle cose di questo mondo. No, temo la nostra debolezza eretta a virtù. Il mondo morirà di “buoni sentimenti”». Per sua fortuna visse in un’epoca dove le occasioni per guerreggiare non mancavano. Quella del barone Ungern non fu certo un’esistenza mancata. La razza che volle opporre ai “rossi” fu quella dei combattenti a cavallo delle steppe asiatiche, i mongoli.
Difficile distinguere il mito dalla realtà quando si parla di un avventuriero che sfugge a ogni definizione. Di certo la sua spietatezza non si discosta da quella degli altri comandanti che operavano sullo scacchiere euroasiatico nel caos seguito alla Prima Guerra Mondiale. Ciò che si può ricostruire, di storico, di questo ex ufficiale zarista autoproclamatosi generale è che combatté contro i sovietici e i cinesi fra il 1920 e il 1921, dopo la disfatta dei “bianchi” zaristi, e che costituì un regno mongolo durato solo 6 mesi, basato sul terrore e la violenza. Fu la guida della Cavalleria “Selvaggia” composta per lo più da cosacchi, buriati e mongoli, condotta verso una sicura sconfitta contro un’Armata Rossa trionfante su tutti i fronti. Parte della sua vita può essere ricostruita dagli atti del processo, celebrato dai sovietici, che ne decretò la morte. Un’altra fonte di informazioni, ma molto romanzata, è il resoconto (Bestie, Uomini, Dei, Edizioni Mediterranee) di un professore polacco, Ferdinand Ossendowski, che incontrò il barone nel 1921.
Ora due novità editoriali, Il dio della guerra. Il barone Roman Feodorovic von Ungern-Sternberg di Jean Mabire (Edizioni Ar, pp. 226, euro 20) e il volume a più mani Imperi delle steppe (a cura di Daniele Lazzeri, prefazione di Franco Cardini, illustrazioni di Francesco Iacoviello, con saggi, fra gli altri, di Aldo Ferrari e Pio Filippani Ronconi, Centro Studi Vox Populi, pp. 294, euro 19, ), ripresentano la figura di questo zarista irregolare, dapprima vicino ai “bianchi”, poi appoggiato dai giapponesi, infine scaricato da tutti, solitario cavaliere di un’apocalittica lotta contro il bolscevismo.
Figura mitica quindi, come lui stesso avrebbe ammesso in una delle fantomatiche “conversazioni” con Ossendowski: «Il mio nome è circondato da un tale odio e da tanto terrore che nessuno riesce a distinguere la storia dalla leggenda».
Di sicuro la sua spietatezza e il suo coraggio erano proverbiali. Fece massacrare non solo cinesi e comunisti, nel suo cammino sanguinario di “bianco” eretico, ma anche gli ebrei che si rifiutavano di consegnare le loro ricchezze. Il saccheggio e la violenza sistematica erano il credo della Cavalleria Selvaggia, o Asiatica, come viene chiamata da alcune fonti. Una crudeltà utilizzata anche contro i suoi stessi uomini. Il suo dominio era infatti basato sulla paura. Particolarmente impopolare la disciplina che, su ispirazione degli ordini monastici-guerrieri del Medioevo come i Templari, imponeva ai cavalieri: la regola prevedeva il celibato, la castità assoluta, il divieto di godere di ogni tipo di divertimento, per concentrarsi esclusivamente sulla dimensione militare della lotta ai “rossi”. Bastava alzare un po’ troppo il gomito, per finire fra le mani dello “strangolatore”, il capo della polizia del barone, il boia Sipailov. Impiccagioni, fucilazioni, torture erano all’ordine del giorno nel regno mongolo di von Ungern, durato dal marzo all’agosto del 1921.
Nulla si sa di certo invece sul suo presunto “misticismo”, sull’alone di mago e di “semi-dio” immortale e invincibile che il mito ha voluto costruire attorno alla sua figura. Lazzeri e Mabire, fedeli alla leggenda, parlano di paganesimo e buddismo, anche se il barone rimase nominalmente per tutta la vita un cristiano riformato, come la sua famiglia di origine estone. Tuttavia Mabire, sulla scorta di Ossendowski, riporta alcune frasi illuminanti su quella che poteva essere la visione del mondo, solare, collegabile alle antichi radici pagane baltiche, del barone: «21 giugno 1920. Solstizio d’estate. Ho ordinato ai miei cosacchi di accendere dei fuochi sulle colline che circondano Dauria. I partigiani bolscevichi si chiederanno cosa stiamo preparando per loro. Molto semplicemente, un’altra rivoluzione, un po’ più terribile della loro. Loro adorano la stella rossa. Noi festeggiamo il sole giallo. Guerra di religione».
antichi culti pagani
E il giorno seguente annota: «Alcuni pastori buriati si sono aggirati per tutta la notte attorno ai nostri fuochi. Nonostante il buddismo, hanno qualche vaga nostalgia del culto solare. Non molto tempo fa l’Asia era bianca. Vi si adorava il fuoco, dal mar del Giappone alla Finlandia. Lo sciamanesimo resta la religione delle radici. I finlandesi, i bianchi dello Yang-Tze e gli ainu celebrano gli stessi misteri della terra, al ritmo ossessivo dei tamburi fatti con la pelle di renna». Il suo sogno era quello di «far rivivere tutti questi culti antichi. Infondere nell’Asia la nostalgia per il suo passato bianco».
L’atto finale della sua vita, il tradimento, i cavalieri mongoli che, di fronte alla prospettiva di attraversare la Cina per raggiungere il Tibet (l’ultima trovata del barone braccato dall’Armata Rossa), si danno alla fuga, tornano alle loro capanne e alle loro famiglie, racconta invece di un uomo sconfitto, giunto al termine del suo percorso di condottiero di un’armata Brancaleone asiatica. Consegnato da un suo ufficiale ai sovietici, confesserà durante il processo: «Non credo più alle teste coronate. I Romanov erano marci, come i Borboni o gli Hohenzollern. Tutto questo fa parte del vecchio mondo». Inutile difendere l’Ancien Régime, tanto vale seppellirlo in un mare di sangue. Perdere con onore fa parte della legge della guerra. Anche nella sconfitta quindi il barone sanguinario Ungern Khan è rimasto fedele alla sua missione: «Diventa ciò che sei».

Da: Libero, del 21 marzo 2009
di Andrea Colombo

martedì 24 marzo 2009

I Cattolici reagiscono ......

I cattolici francesi finalmente si ribellano, a questo clima di continua aggressione e vilipendio alla figura del Santo Padre. Magari nel video si sarebbe potuta evitare la musica house e campionamenti bizzarri ma tant'è....
Meglio combattere che accettare supinamente!


Les catholiques défendent leur pape!
by AFprod

martedì 10 marzo 2009

aspettando sabato....


“Il cavaliere consacra alla Dama il braccio e il cuore

in una promessa di fede che solo la morte può sciogliere.

Nelle profondità del cuore, dove cielo e terra si toccano,

lo spirito feconda col suo soffio la terra e sboccia la Rosa Mistica.

Alla spada cruciforme del cavaliere, s’unisce al centro una rosa,

per indicare,

tramite l’arcano ghibellino della spada e della rosa,

che il mistero ineffabile del vero amore sboccia,

al centro dell’essere,

nell’unione delle due nature del Guerriero e della Donna stella”


Mario Polia da “Il mistero della Dama”

domenica 8 marzo 2009

La Donna a Sparta / parte 2

In città le Spartane a differenza dei propri padri, mariti, fratelli godevano di un’amplissima libertà, essendo sollevate non solo dagli obblighi militari e politici, non solo dall’educazione della prole in quanto affidata allo stato, ma anche dalle faccende domestiche, inadatte ad essere svolte da qualsiasi cittadina di sangue spartano. Potevano quindi uscire di casa in tenuta assai disinvolta fatta di vesti fluttuanti tali da non arrivare al ginocchio, mostrando addirittura le cosce e dividendo coi maschi le palestre nello svolgimento delle attività ginniche (non è un caso che all’epoca solo a Sparta si riproducesse artisticamente la nudità femminile). Questa grandissima libertà si rifletteva anche in ambito amoroso e coniugale, in quanto a Sparta l’adulterio era un concetto assai blando e la famiglia non deteneva quell’aurea sacrale conferitagli in seguito dalla morale cattolica. A Sparta l’unica vera famiglia era la nazione, la comunità stessa. Per questo un uomo non intenzionato a prendere moglie poteva chiedere tranquillamente a una donna e al relativo marito il consenso per avere figli con lei. Oppure le mogli potevano accoppiarsi con altri uomini con il benestare del proprio marito nel caso quest’ultimo non riuscisse ad avere figli. Sparta era infatti ossessionata dal problema del continuo assottigliarsi del numero degli Eguali, a seguito delle continue battaglie e del rifiuto di mischiarsi con le genti assoggettate. Basti pensare che qualora a trent’anni lo spartano non avesse deciso di maritarsi, gli anziani potevano avvalersi delle loro prerogative scegliendo una vergine di nobile famiglia, conducendola in casa del solitario affinchè i due procreassero, garantendo così la continuità della stirpe. Era quindi naturale, per via del fatto che i ruoli politici,militari, educativi venissero svolti dagli uomini, che la gran parte degli affari fosse esercitata dalle donne. Non a caso, le spartane diversamente dalle loro contemporanee potevano detenere la proprietà di vasti appezzamenti di terreno ( i 2/5 delle terre dei 9000 lotti erano di proprietà di cittadine femmine). Inoltre, esse finivano con l’amministrare anche i beni dei figli e dei mariti a causa della loro prolungata assenza, in particolare assicurandosi che giungessero le prestabilite quantità di cibo, in modo da girarne parte alle caserme sotto forma di contributo.

Brano estratto da "L’esempio di Sparta" di Michele Zambelli, contenuto all'interno del Fascicolo " La Forza di Sparta" - Raido

venerdì 6 marzo 2009

La Donna a Sparta

Sebbene a Sparta la vita politica e militare fosse prerogativa dei cittadini di sesso maschile, sarebbe sbagliato considerare quest’ultima come un modello esclusivo di stato virile. Infatti, essendo la vita dei cittadini maschi così accuratamente limitata, le cittadine femmine erano chiamate a svolgere un ruolo fondamentale all’interno della società. Paradossalmente proprio all’interno di un ordinamento “guerriero” come quello spartano, la donna riuscì a godere di una straordinaria libertà, sconosciuta invece nei vicini stati greci, dove la femmina continuava a rimaner isolata, relegata ai margini della vita sociale, rinchiusa in casa a sbrigare le varie faccende domestiche. Tutto ciò perché a Sparta la distinzione più importante non era tra uomini e donne, bensì tra spartani e non, riducendo quindi l’appartenenza sessuale a una semplice distinzioni di ruoli. Per questo anche le ragazze erano a pieno titolo soggette a un’educazione aristocratica finalizzata a trasferirle lo stesso codice d’onore dei maschi, anzi, facendone una nuova fonte di trasmissione di quella visione del mondo. Si trattava quindi di un’educazione che la portava ad essere più dominante che dominata. Ecco allora che il ruolo della donna diveniva anch’esso ispirato a un grande amore per la gloria, per il valore individuale, per il prestigio della nazione, per una continua emulazione delle virtù, per il rifiuto degli allettamenti mondani. La donna veniva così istruita alle danze, al canto, divenendo capace di leggere e scrivere. Madre e donna modello, essa doveva rappresentare un esempio costante, una sorta di custode dei valori fondanti, del codice d’onore della comunità. In tal senso, assai simbolica è la cerimonia antichissima della consegna dello scudo, dove le mogli e le madri vestite di bianco e con il capo velato, si disponevano davanti allo schieramento dei soldati in partenza e uscite dai ranghi al suono del corno deponevano lo scudo ai piedi del proprio figlio; scudo poi raccolto e infilato al braccio declamando la formula: “Torna con questo o sopra di questo” (ovvero vincere o morire). Perché solo i vincitori non avrebbero mai gettato lo scudo per scappare più velocemente, oppure perchè cadendo in battaglia, il loro corpo sarebbe stato riportato su di esso.
Brano estratto da "L’esempio di Sparta" di Michele Zambelli, contenuto all'interno del Fascicolo " La Forza di Sparta" - Raido

mercoledì 4 marzo 2009

Heliodromos N. 20/21 - Speciale Guido De Giorgio

Pubblichiamo parte dell'editoriale di questo nuovo numero

Dall’Oriente all’Occidente indicazioni significative per la rivolta al mondo moderno

Il 25 novembre 1970, presso il quartier generale della guarnigione militare di Ichigaya, nel cuore di Tokio, Yukio Mishima compie l’atto finale della sua esistenza terrena. Dopo aver “regolato”, nei giorni e nelle ore precedenti, ogni pendenza umana: redatto le ultime volontà testamentarie; impartito istruzioni sulla vestizione del proprio cadavere, che prevede l’uso dell’uniforme della militia, in guanti bianchi e con la katana in pugno, in vista della cremazione; chiesto con una lettera ai genitori che nel nome buddista postumo, fosse incluso l’ideogramma bu di guerriero; consegnate le pagine conclusive della sua ultima opera, da inoltrare al suo editore; invitati due giornalisti che conosce a raggiungerlo sul teatro dell’azione – dopo aver indossato l’uniforme dell’Associazione da lui creata, Mishima si incontra davanti alla sua residenza con quattro membri della Società degli Scudi, appositamente prescelti per partecipare all’evento.Il gruppo viene ricevuto dal generale Masuda Kanetoshi, comandante dell’Armata Orientale, al quale a un certo punto Mishima si offre di mostrare la spada che porta con sé, un raro oggetto di valore opera di un rinomato maestro spadaio. Il generale constata con disappunto che la lama, contrariamente a quanto prevede la legge, è regolarmente affilata e funzionante, ma viene subito immobilizzato e legato ad una sedia, mentre le porte di accesso al suo ufficio vengono bloccate. È richiesta, sotto la minaccia della vita dell’ostaggio, l’adunata entro mezzogiorno di tutte le reclute nel cortile della caserma, a cui si aggiungeranno anche una quarantina di membri della Società degli Scudi, confluiti all’ingresso del complesso militare. Il programma prevede un discorso di Mishima della durata di circa mezzora, che i soldati dovranno ascoltare in silenzio, a cui seguirà una tregua di quaranta minuti circa durante la quale non si tenterà nessuna azione ostile contro il gruppo. La fronte stretta dalla hackimaki, a contenere il mentale e favorire la concentrazione, Mishima dovrebbe dare lettura del Manifesto della Società degli Scudi, impresso in volantini lanciati sui militari. Ma, di fatto, egli riesce a parlare per soli cinque minuti, fra il frastuono degli elicotteri che volteggiano sul posto e l’urlo delle sirene. Mentre gli ottocento uomini appositamente adunati, invece di ascoltarlo lo deridono e lo insultano. Mishima, preso atto della situazione, si ritira negli uffici del generale Masuda, dopo avere augurato “Lunga vita alla Maestà imperiale”, dando inizio al suicidio rituale per sventramento e decapitazione. E questo avveniva in un Paese, tutto sommato, ancora plasmato da una tradizione millenaria e sensibile alla ritualità di certi gesti, che da sempre fanno parte degli elementi costitutivi della società giapponese. Coinvolgendo, fra l’altro, la classe militare che di quella continuità tradizionale aveva rappresentato la base principale.

Quel gesto lontano rappresenta dunque un monito quanto mai attuale per tutti quanti noi che agli stessi valori di Mishima – più o meno degnamente! – ci richiamiamo in Italia. Il nostro Paese, purtroppo, oggi non può contare su nessuna continuità tradizionale paragonabile a quella del Giappone, dopo il venir meno dell’influenza tradizionale presente dai tempi di Roma antica fino all’epoca medievale. Ammesso e non concesso che i nostri gruppi e le nostre iniziative militanti d’ispirazione tradizionale siano oggi in grado di organizzare la loro azione con la stessa minuziosa attenzione, con la stessa impeccabilità e, in poche parole, con la stessa pietas usate da Mishima in quel lontano autunno del 1970: quali effetti possono avere sul loro morale, sulla loro tenuta e sulla loro perseveranza nell’azione intrapresa le grida di scherno, le risate beffarde, nonché la sordità più assoluta degli interlocutori ideali, a cui sono diretti i messaggi lanciati dal “terrazzo” eletto a teatro della propria rappresentazione? Lo scrittore giapponese sembrava aver curato ogni minimo dettaglio del suo gesto, senza lasciare nulla al caso, mettendo in gioco la sua stessa vita e sacrificando tutto quello che aveva costruito con impegno e sacrificio. Ma, ciò nonostante, ha dovuto fare i conti con la realtà esterna, incapace di seguirlo sul sentiero dei valori e degli alti ideali che avrebbero potuto ridare dignità e significato all’esistenza della nazione del Sol Levante, devastata dal cancro democratico. Quel male incurabile che proprio in questi giorni sembra avere imboccato il percorso che condurrà al suo stadio terminale: coi suoi cataclismi economici e finanziari, con le sue devastazioni psichiche e spirituali, con i suoi colossali fallimenti politici e con la sua definitiva caratterizzazione come ottusa dittatura del pensiero unico e del politicamente corretto. Quella religione democratica che, come ogni religione che si rispetti, ha un suo decalogo (i Diritti dell’uomo), ha i suoi officianti (le pseudo autorità morali che decidono cos’è bene e cos’è male), le sue liturgie (cortei e manifestazioni al posto delle processioni), i suoi peccati capitali (razzismo, intolleranza, discriminazione), un suo Verbo (nessuna libertà per i nemici della libertà). Quel paradiso realizzato in terra che ha prodotto l’individualismo totalitario, la cultura della morte, la tirannia consumistica e la polizia del pensiero, e per diffondere il quale le orde democratiche sono passate come un acido corrosivo, sradicando ogni traccia di società organica e lasciando sul terreno le macerie di un mondo distrutto e ridotto a poltiglia informe ed invivibile.
SOMMARIO

EDITORIALE:
Dall'Oriente all'Occidente indìcazioni significative per la rivolta al mondo moderno

SPECIALE GUIDO DE GIORGIO:
Copertina: il Pa Kua di De Giorgio
Guido De Giorgio e il ritorno allo spiritotradizìonale di E. Iurato
Due lettere inedite di R. Guénon a De Giorgio
René Guénon e la cerca di Dio di G. De Giorgio Islam di G. De Giorgio
Scuola e Religione di G. De Giorgio
La donna non è una cosa di G. De Giorgio
L'eroe del Gìmma: Havis de' Giorgio di E. Musso
Poesia per Havis di G. De Giorgio
La dottrina imperiale in De Giorgio di A. Scali
Incontri con Corallo Reginelli di A. Calò
AZIONE TRADIZIONALE:Campo estivo 2008
RIFLESSIONI-Dentro e fuori le mura
ANALISI:Guido de Giorgío. Ciò che mormora il vento del Gargano
Aleksandr Solgenitsin, Due secoli insieme
La tamburina, un film di George Roy hill
LETTERE A HELIODROMOS
TRADIZIONE E CONTROTRADIZIONE
Cronache di fine ciclo

HELIODROMOS n 20-21
Contributi per il Fronte della TradizioneEquinozio d'Autunno / Solstizio d'Inverno
Prezzo: 12€

lunedì 2 marzo 2009

Unger Khan - Il Fascicolo!


PREMESSA


Di lui molto è stato scritto. Non siamo qui a ripetere. Però fortunatamente, ma non a caso, molto rimane oscuro o meglio celato. Celato agli sguardi indiscreti, alle menti che cercano di capire la figura di questo barone-templare-buddhista-asceta solo attraverso gli elementi storiografici. Coloro che si accostano alla sua storia con animo scientifico-analitico sono inesorabilmente destinati al fallimento: la figura di Ungern von Sternberg non conta nulla, i suoi sacrifici, le sue battaglie, il suo carisma, le sue doti paranormali, la sua furia non contano nulla; a nulla serve ben indagare gli elementi ancora incerti del luogo e data di nascita e morte di questo capo; a nulla…se vogliamo davvero capire. Più che mai, qui l’uomo è nulla…se lo leggiamo come tale. Ma se proviamo un attimo a liberarci della nostra struttura, a respirare a fondo, a guardare liberi “quel mondo ancora vero” in cui lui è vissuto, possiamo intuire qualcosa di autentico e originale: intuiamo le energie profonde che hanno mosso Ungern, forze arcaiche e in quel frangente brutalmente rinnovatrici.
Forze emerse in lui, limpide e taglienti: queste hanno dato un senso alla sua figura, all’uomo, facendo dei suoi sacrifici un’offerta, delle sue battaglie un percorso di trasfigurazione, della sua furia un sacro furore, del capo una Guida. Ed è in questo senso che ci interessa Ungern von Sternberg come ogni altro esempio del passato: nella misura in cui, attraverso la sua opera, ha prima voluto e poi saputo trascendere il suo essere uomo; facendosi portatore di un significato spirituale, o meglio di un significante, profondo e meta-storico. Per questo i suoi atti parlavano una lingua diversa, spesso incompresa dai suoi stessi soldati, erano atti che volevano incidere su una realtà parallela, una realtà parallela che lui coglieva così presente, efficace, operante. Da qui forse la sintonia e mutuo soccorso con le gerarchie spirituali lamaiste, non solo della città di Urga, capitale della Mongolia da lui liberata. Autorità religiose che per prime hanno indicato in lui l’incarnazione di forze divine. E tutto questo ovviamente trascende le vicende storiche che lo hanno visto protagonista. Un protagonista, d’altro lato, spesso discusso o discutibile: era davvero possibile creare - con così limitate risorse - un impero teocratico restauratore in opposizione alla brutalità bolscevica e al materialismo europeo? In che misura, la mancanza di una più stretta alleanza con le truppe dell’ammiraglio Kolchak, ha inficiato il tentativo antirivoluzionario dei Russi bianchi?
Come è possibile che un condottiero dalle riconosciute eccezionali facoltà intuitive ed introspettive, non abbia colto anticipatamente il tradimento, a fronte dell’ultimo ordine impartito alle truppe ormai esauste di raggiungere in marcia “la fortezza Tibet”? Molte potrebbero essere le domande che decidiamo qui di non scandagliare. Perché le risposte che cercheremmo di strappare dalla storia (presupponendo di avere gli strumenti per una indagine obiettiva) in realtà non ci arricchirebbero. Anzi, appesantirebbero il nostro volo, senza più permetterci di seguire l’ombra veloce del Barone, che con la sua cavalleria ha, in pochissimi anni, tracciato sentieri su nevai steppe e deserti infiniti, in lungo e in largo per il cuore dell’Asia. Sono sentieri che ancora oggi come allora indicano una via, alle tribù asiatiche come agli europei, ai russi come ai giapponesi (i quali, all’epoca, inutilmente supportarono le sue truppe in funzione anticinese e antirussa). Una via lungo la quale può esser richiesta violenza: allora i tempi lo imponevano, ma già Ungern ha voluto rimariamente far violenza al Cielo nell’imporgli di cadere sulla terra, a restaurare, a rigenerare. Un tentativo che non è riuscito, ma animato dalla stessa Idea-Luce che muoverà la mano ad altri che, da lì a poco, inizieranno a ricomporre il mandala interrotto. Così Filippani Ronconi: «Nello stesso tempo [della morte del Barone], in un angolo della lontanissima Europa, nella Germania conquassata del primo dopoguerra, il mito del Re del Mondo giungeva per vie misteriose a gruppi di giovani intellettuali, corroborando con il suo simbolo solare i nuovi meditatori del “Vril” e le assisi della Thule-Gesellschaft». Perché il suo tentativo come quello di altri è fallito? Come possono, coloro che hanno saputo catalizzare su di sé le forze dello Spirito, esser piegati dalla forza della materia? Non è certo la preponderanza bellica nemica a ragione di ciò. E’ solo che i tempi, allora come oggi, non sono ancora giunti. Ed il valore di questi Eroi, la loro nobiltà, risiede proprio in questo. L’agire prima dell’arrivo del nuovo Maitreya, senza alcuna garanzia di vittoria. Ungern von Sternberg non fu la sola Guida a lottare nella consapevolezza della sua rapida morte, e come le altre non ebbe la gratificazione di veder conclusa la sua opera rettificatrice. Ma ci ha insegnato a rifiutare ogni attitudine che fosse passiva (subendo la storia), re-attiva (reagendo alla storia) o addirittura pre-attiva (prevedendo la storia), per far nostra una attitudine pro-attiva, dedicandoci cioè a costruire la storia. Nelle sue stesse parole la portata della sua missione: «loro non possono capire che noi non stiamo combattendo un partito politico ma una setta di assassini di tutta la cultura spirituale contemporanea». E siccome noblesse oblige, era impossibile per uomini come lui ritirarsi di fronte a quel cataclisma storico. Qualunque cosa si voglia vedere di Ungern von Sternberg, la sua follia sanguinaria in battaglia o il suo rigido ascetismo tantrico, per certo il suo nome rimane legato a uno stile di nobiltà schietta e altruista. Noi scegliamo due sue immagini: il combattente seduto in meditazione di fronte alla statua del Buddha prima di ogni battaglia e quella del Barone sdraiato a terra a mangiare e dormire tra il sudiciume delle sue truppe cosacche, mongole, tibetane. Due immagini speculari di una tipologia umana ormai scomparsa ma che, per certo, ha avuto il favore degli Dei. Spetta a noi fare in modo che, almeno, non venga dimenticata.


RAIDO


“Ungern Khan - Storia e mito del Barone Von Ungern Sternberg“
Scritti di: J. Evola, R. Guénon, G. d’Onofrio
Pagine: 33Prezzo: 3,00 €



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